25 novembre giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Il 25 novembre è stata giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne. Anche a Pisa come in tantissime altre città e paesi nel mondo, tantissime donne, nonostante le limitazioni dovute alle zone rosse emanate dal governo per ridurre i contagi, hanno voluto manifestare per le strade.
Questa giornata di denuncia contro le violenze e di lotta è iniziata la mattina nei vari supermercati della città, dove sono stati lasciati dei volantini alle persone che facevano la spesa. Sempre nella mattinata una biciclettata ha segnalato alcuni luoghi simbolo della violenza di genere, non solo maschile sulle donne. Questa violenza istituzionale e intrinseca nella società in cui viviamo si riscontra infatti nei tribunali, dove la ricerca della giustizia si tramuta spesso e volentieri in un calvario. Le donne vengono passate allo ‘scanner’ con colloqui e consulenze varie per intraprendere il percorso più adatto, denunciano il loro aguzzino e affrontano processi estenuanti che vanno dai 2 anni e 7 mesi per una condanna in primo grado a 5 anni e 7 mesi per una in appello e sono chiamate a fornire dettagli aberranti dolorosi, mentre vengono trattate come accusate. Costantemente colpevolizzate da domande come: “ma lei non ha gridato”, “come era vestita?”.
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Il movimento Non una di Meno da anni afferma che la violenza di genere non è un’emergenza, ma la struttura portante del nostro di sistema sociale. La violenza viene continuamente perpetuata sui posti di lavoro, infatti la biciclettata ha fatto tappa alla sede di Confindustria in via Volturno per denunciare che la tutela della salute pubblica continua ad essere incompatibile con la dottrina dei profitti e consumi ad ogni costo.La protesta si è spostata all’ospedale Santa Chiara, dove era in corso lo sciopero del comparto sanità indetto da USB per chiedere che venga data la priorità ai servizi pubblici, l’assorbimento del personale da anni esternalizzato in tanti appalti, la copertura salariale secondo gli standard europei, finanziamenti e investimenti programmati e pianificati da Governo ed Enti Locali. Dall’inizio dell’epidemia sono stati diagnosticati 60.242 casi tra gli operatori sanitari, e di questi, le donne rappresentano il 70%, con più di 42mila contagi. Questo avviene perché quasi la metà dei professionisti sanitari contagiati lavora in ambito infermieristico o ostetrico, settori a forte prevalenza femminile. Senza considerare le migliaia di addette alla sanificazione e alle pulizie, continuamente svilite e sottopagate, che hanno svolto un ruolo centrale in questa pandemia, alle quali le ditte non hanno garantito nemmeno lo standard minimo di tutele assicurato al personale sanitario.
Il peso di questi tagli lo sentiamo anche come utenti: i disservizi nei reparti di IVG sono stati uno dei tanti scandali di questa pandemia, dove non solo si deve affrontare la solita altissima percentuale di medici obiettori, ma anche un’altra un’emergenza nell’emergenza: tantissimi reparti di IVG sono stati trasferiti, consultori chiusi, IVG farmacologiche sospese, reparti maternità chiusi.
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Negli interventi al megafono è stato ribadito:
“Riconosciamo nell’aziendalizzazione della sanità e nel meccanismo di efficienza a tutti i costi una delle radici di questa macabra organizzazione che, classificando il valore della nostra vita, si dimostra disposta a sacrificare e sacrificarci: lo abbiamo visto nel modo in cui sono state utilizzate le RSA in Lombardia e nel fatto che le cure e gli esami necessari alla battaglia contro il cancro sono stati rimandati. Alla loro necessità di classificarci e di sacrificarci, costruiamo un’altra idea di salute pubblica. “
Nel pomeriggio un’assemblea in piazza XX settembre e un flash mob sul Ponte di Mezzo che con un filo fuxia ha unito ancora le voci e i corpi delle donne e delle soggettività in lotta che hanno deciso di non subire più. Una giornata di lotta contro le violenze subite in tanti, troppi, ambiti della propria vita.

In questi mesi di pandemia -soprattutto durante il lockdown- si è registrato un aumento dei casi di violenza domestica, mentre il governo ma anche le istituzioni locali dicevano alle donne di stare tranquille perchè stavano per arrivare delle soluzioni. Il comune di Pisa ha pubblicizzato l’imminente apertura di una struttura protetta per le donne, entro metà ottobre. A che punto siamo?

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Nel 2020 in Italia si sono verificati 62 femminicidi, durante il lockdown sono state 5.031 le telefonate valide al 1522, il 73% in più sullo stesso periodo del 2019 (dato ISTAT).
A livello regionale, invece, dal 1 marzo al 16 aprile, la Toscana ha conquistato la maglia nera insieme al Lazio con 8,5 chiamate ai centri antiviolenza ogni 100.000 abitanti. Significa che circa 163 toscane hanno chiesto aiuto o segnalato una violenza, mentre da marzo a giugno 2020, sono state 814, di cui 671 utenti al primo contatto e con 371 vittime accertate.
Dal 1 gennaio al 15 novembre il Telefono Donna di PISA, la linea di ascolto e accoglienza del centro antiviolenza pisano, ha ricevuto 1.296 telefonate, l’aumento delle chiamate si registra soprattutto con l’inizio dell’emergenza coronavirus, in particolare dalla fine del lockdown di primavera, con un picco tra giugno e luglio. A telefonare sono state 409 donne (363 nel 2019).
Da maggio ad oggi contatto di 207 donne su un totale di 409, con una media di 30 donne al mese e con un picco tra giugno e luglio, 32 richieste per alloggio in casa rifugio vs. 8 posti in casa rifugio.
Da gennaio a giugno, in Toscana si sono verificati 6 casi di omotransfobia, di cui un episodio a Pisa.

Le soluzioni non arrivano e con l’emergenza covid19 i percorsi di fuoriuscita dalla violenza, già pieni di limiti prima, diventano sempre più difficili. 
Da una parte è sempre più complicato entrare nelle case rifugio, mentre dall’altra si amplificano le difficoltà nel trovare delle soluzioni abitative e lavorative che permettano la fuoriuscita dall’emergenza.
Cosa succede quando si decide di intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza?
Tutto inizia quando e se riesci a scappare di casa e dalla persona che ti fa violenza. Decidi di attivare il codice rosa, dopo essere finita in ospedale o dopo aver chiamato le forze dell’ordine e aver denunciato.
A quel punto arriva l’accoglienza in casa rifugio, un luogo segreto in cui le donne ospitate -per la loro tutela- spesso non possono uscire nè avere il telefono. 
La durata dell’accoglienza varia da una settimana a sei mesi, a seconda delle valutazioni delle operatrici e dei servizi sociali. 
Dopo questo periodo di accoglienza devi uscire e trovarun modo per sopravvivere, da sola.
La realtà è che una volta uscita dall’emergenza, se non hai le possibilità economiche per costruirti una vita autonoma, la violenza continua, mentre i percorsi istituzionali finiscono.
Allora la tua condizione di povertà diventa un discrimine. 
Nessun percorso di aiuto concreto è stato attivato, nessuna proposta dignitosa, nessuna possibilità di autodeterminazione viene prevista. 
Le misure istituzionali si fermano qui: ti viene detto di dover uscire con poco preavviso, dopo un mese in isolamento senza contatti con il mondo esterno, senza il tempo e l’opportunità concreta di trovare un lavoro e un posto in cui stare. 
Le uniche proposte da parte dei servizi sociali sono insufficienti, impercorribili e talvolta inaccettabili: andare al dormitorio, luogo assolutamente non idoneo, provvisorio e in questo momento al completo causa covid; chiedere a degli amici o familiari di farsi ospitare, dando per scontato che ci sia sempre qualcuno che sia disposto a farlo; o addirittura emigrare illegalmente (avendo l’asilo politico in Italia) e durante una pandemia globale da qualche parente in Francia o in Germania.
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Questo non è un percorso, è un paradosso nel quale non viene tenuto conto delle persone, della violenza da cui  si sono sottratte. Anzi, se ne perpetra dell’altra… Avevi trovato finalmente il coraggio di dire basta alle angherie e alla violenza fisica e psicologica che ti stava annientando e invece sei lasciata sola.
Tornare a casa, con la persona dalla quale subivi abusi e violenze, sembra quasi la soluzione più semplice. “Alla fine non erano tutti giorni brutti, quando lui era tranquillo ero trattata meglio di una principessa”. 
Alla fine sei sempre te quella sbagliata, quella che deve stare sul banco degli imputati.
Mentre cerchi di ricostruirti un pezzo di vita senza soccombere, l’umiliazione continua perchè è la tua vita ad essere giudicata: non sei riuscita a trovarti un lavoro, non hai trovato una casa dove abitare, non sei abbastanza brava e meritevole.
Come facciamo affinchè i percorsi di fuoriuscita dalla violenza siano realmente praticabili e accessibili, se il messaggio che mandiamo è che se non rientri più nella categoria di “abbastanza a rischio” vieni scaricata, abbandonata a te stessa?
Siamo consapevoli che le case di emergenza non possono essere considerate la soluzione definitiva, nessuna lo vorrebbe, nemmeno chi ci vive. Ma allora dobbiamo chiederci cosa significa dare continuità ad un percorso di fuoriuscita quando viene considerata solo l’emergenza e non tutto quello che dovrebbe venire dopo, la conquista dell’autonomia in tutte le sue forme, da quelle materiali a quelle personali e psicologiche.

La violenza sulle donne non si esaurisce quando guariscono i lividi!