L’8 marzo milioni di donne in tutto il mondo sono scese in piazza e hanno scioperato al grido “Se non valiamo, non produciamo”, rispondendo all’appello argentino “Ni una Menos” contro la violenza di genere, economica, sociale, lavorativa, sanitaria e istituzionale.
Una giornata centrale nel porsi come punto contemporaneamente di inizio e fine. Fine del femminismo istituzionale che da decenni usa il corpo e la vita delle donne come strumento di controllo e propaganda, vedendo la violenza solo come emergenzialità. Inizio, o potenziale emersione, di un soggetto che afferma la propria potenza, a partire da se stesse e dal rifiuto del proprio ruolo sociale e lavorativo. Questo pensiamo sia il punto zero da cui ripartire per far sì che l’otto marzo sia tutti i giorni, per trasformare e lottare nella nostra quotidianità.
Questo inizio ha mostrato come lo sciopero sia un’arma sempre attuale per bloccare la produzione, i nervi e i flussi, della metropoli globale e quali sono i nodi (servizi, sanità, trasporti)attraverso cui questo si può fare. Insieme ad un blocco della produzione l’indirizzo dello sciopero dell’otto marzo è stato quello di un blocco della riproduzione dei propri ruoli sociali: la subalternità che permette a questo sistema di andare avanti in quanto tale. Questa è la doppia potenza che uno sciopero femminista può avere: una conflittualità immediata e profonda, totalmente rivoluzionaria.
Nella nostra città alla fine del corteo è stato occupato l’ex centro di accoglienza in via Garibaldi 192: ha preso vita la Mala Servanen Jin Occupata – Casa delle Donne che Combattono, omaggiando le donne Kurde che guidano la Rivoluzione contro il fascismo patriarcale dell’Isis. Un gesto di affermazione del proprio potere di contare, della volontà di riprendersi collettivamente nel conflitto pezzi di vita e tempo per se stesse, per la propria indipendenza. Contro l’elemosina della Caritas, l’umiliazione dei servizi sociali e dell’emergenza abitativa, il ricatto della violenza sul lavoro. Il rifiuto di questo sistema che alimenta dipendenza e subalternità si dà nell’affrontare la sofferenza quotidiana, romperla e ricomporla in una lotta condivisa, esuberante e favolosa. Le figure del riscatto sono quelle che risalgono pezzo per pezzo le cause della propria sofferenza, le affrontano e affermano se stesse in maniera collettiva da marea diventando burrasca.