Pubblichiamo una recensione, tratta dal sito CarmillaOnLine, dell’ultimo libro dei Wu Ming, “ProletKult” che sarà presentato al Newroz venerdì 1 marzo alle 17.00.
Denni è una giovane dai capelli biondissimi, però sembra un ragazzo e dice di venire da un pianeta comunista. Anche lì hanno avuto re, feudatari e capitalisti. Ma sono cose di un passato remoto. Adesso non c’è più proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere della scienza e della tecnica ha ridotto il lavoro a un’attività residuale di tipo organizzativo che viene svolta senza che si sviluppino processi d’identificazione. Su Nacun vale ciò che Karl Marx scrisse nell’Ideologia tedesca: “nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.” Tale somiglianza con le prefigurazioni marxiane, tuttavia, vale solo nella forma, perché su Nacun gli animali non sono trattati come cose, né utilizzati come nutrimento. Il comunismo nacuniano inoltre non è una società irenica, che “non esiste un mondo dove tutti sono gentili” e “l’unica società pacificata è quella morta”. Su quel pianeta ad esempio per risolvere il problema della scarsità di risorse alcuni vogliono invadere la terra che è in uno stadio di sviluppo sociale ancora primitivo ai loro occhi. Altri sono “interplanetaristi” e non sono d’accordo nel trattare gli umani come questi trattano i “loro” conigli.
In Proletkult, il nuovo romanzo di Wu Ming, Denni, come i protagonisti delle Lettere persiane di Montesquieu, ci aiuta a vedere il mondo con lo sguardo candidamente critico dell’alieno. L’originalità dell’operazione sta tuttavia nell’ambientare il viaggio della comunista venuta dallo spazio nell’Unione sovietica del 1927. È l’anno in cui si festeggia il decennale della rivoluzione, Lenin è morto e il suo corpo è stato imbalsamato. Molti rivoluzionari sono passati dalle barricate ai faldoni dei ministeri e sorseggiano whisky di pregio; quelli più intransigenti sono stati messi in condizione di non nuocere e il potere è finito nelle mani di quel ceto impiegatizio perfettamente descritto nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Queste mezze maniche piccole piccole hanno ottenuto distinzione sociale e privilegi; adesso vogliono goderseli in pace. Stalin è il loro garante, mentre gli oppositori, “Trockij, Kamenev e Zinov’ev denunciano lo strapotere del partito sui soviet, ma sono stati loro a costruire il partito. Hanno ottenuto esattamente ciò per cui hanno lavorato: una gerarchia di militanti di professione, un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario e conservatore. Il fatto che oggi cadano vittime della loro creatura è l’ironia della Storia.” A parlare in questo modo è la trasposizione letteraria di un personaggio realmente esistito: Aleksandr Bogdanov, direttore del primo istituto russo specializzato nella trasfusione del sangue. Si tratta di un uomo solo che sente su di sé il peso del fallimento di un’epoca, ma anche la persona che in gioventù fu bolscevico della prima ora, rapinatore di convogli postali, medico di trincea, filosofo, critico di sinistra del leninismo, scrittore di fantascienza e fondatore dell’Organizzazione culturale-educativa proletaria (in breve: Proletkult). Questo movimento, con il suo mezzo milione di iscritti superava in numero quelli del partito comunista russo, incoraggiava i lavoratori a scrivere opere teatrali, romanzi e poesie, prefiggendosi di superare la mentalità borghese. Secondo Bogdanov, infatti, “se gli operai conquistano le fabbriche, ma non hanno una nuova cultura per organizzarle, finiranno per dipendere dagli ingegneri e dai tecnici che già lavoravano per i vecchi proprietari, oppure ne imiteranno l’opera, con risultati peggiori, e così la pretesa rivoluzione non produrrà un reale cambiamento, se non in peggio.”
In Proletkult Wu Ming usa frasi brevi e un linguaggio cinematografico molto diverso dal fanta-argot dell’Armata dei sonnambuli, ma l’orizzonte euristico è lo stesso: la rivoluzione e il suo opposto correlato, la reazione. “Ne è valsa la pena?” ci si interrogava con rabbia nell’opera del 2014; “il mondo poi l’abbiamo cambiato davvero e in meglio”? – ci si continua a chiedere malinconicamente nel romanzo appena dato alle stampe – “il sacrificio è valso la pena”?
Denni si dice figlia di una nacuniana e di un terrestre che non ha mai conosciuto. È alla ricerca del padre perché lui sarebbe stato su Nacun e potrebbe dire a coloro che vogliono invadere la terra se gli abitanti di questo pianeta abbiano abbandonato l’arretratezza dei vecchi rapporti sociali, se insomma grazie alla rivoluzione abbiano intrapreso “la via giusta”. Forse così l’invasione e le sue orribili conseguenze potrebbero essere sventate, o forse è solo il frutto dell’immaginazione di una ragazza traumatizzata. L’incontro con Denni obbliga Bogdanov a fare i conti con la sua storia e con i fantasmi di una rivoluzione che ha generato una nuova forma d’oppressione. In questo viaggio avvincente, sulle tracce di un uomo che non si trova e di ricordi struggenti, il romanzo ripercorre le vicende teoriche e umane di coloro che osarono assaltare il cielo. Terminata la lettura alcuni alzeranno lo sguardo alle stelle con terrore, altri con speranza.