Un approfondimento a cura della Mala Servanen Jin su donne, salario e garanzie negate verso e oltre l’otto marzo.
La deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro che in questi anni ha colpito la popolazione italiana e di tutti i paesi del mondo producendo povertà, licenziamenti, compressione dei salari e dei diritti si è abbattuta principalmente sulle donne. La precarizzazione del lavoro che condanna alla disoccupazione e al ricatto intere generazioni, l’erosione del welfare, la violenza dei rapporti sociali, sono diventate la normale condizione di ricattabilità cui siamo costrette a vivere. Siamo donne impegnate in lavori dipendenti o autonomi, siamo donne impegnate in lavori tradizionali o nuovi, siamo ragazze madri o donne separate, lavoratrici migranti eppure la strada che ci costringono a percorrere è sempre la stessa, da sempre: sfruttamento dell’intero nostro tempo di vita.
Impegnate nel lavoro di cura, di educazione e crescita dei figli prima, di assistenza agli anziani poi, combattiamo quotidianamente la nostra battaglia per la sopravvivenza sul posto di lavoro dove il salario e la retribuzione che percepiamo sono più bassi di quelli degli uomini, dove subiamo molestie e violenze, mobbing di genere e discriminazioni al rientro dalla maternità o addirittura a gravidanza ancora in corso, vessazioni e ingiustizie, dove la nostra prestazione lavorativa è continuamente svilita proprio perché padroni e aziende sfruttano la nostra condizione di genere per imporre ulteriori flessibilità e ricatti.
Ci siamo fatte strada, a fatica, in tutte le professioni, abbiamo rivendicato salario e diritti, ma anche se siamo il 52% della popolazione rappresentiamo solo il 42% del totale degli occupati. Siamo maggioranza numerica, siamo più formate e con titoli di studio di grado più elevato degli uomini eppure la nostra presenza sul mercato del lavoro ci vede occupate ai gradini più bassi in termini reddituali. Lavoriamo una media di oltre 60 ore settimanali (alle 38-40 ore retribuite si aggiungono in media oltre 25 ore settimanali dedicate alla cura domestica e della famiglia) senza alcun riconoscimento di questo straordinario considerato “dovuto”. Perché?
I vari governi che si sono succeduti nel tempo pretendono di imporci la condizione di mamme e generatrici della forza lavoro del paese e della riproduzione della “razza italica” (il ministro Fontana e il senatore Pillon sono particolarmente rappresentativi per le dichiarazioni scandalose su cosa e come dovremmo organizzare la nostra vita per il “bene” del paese) e contemporaneamente, oltre a minacciare la nostra libertà, non predispongono nessuna tutela in termini di welfare o salvaguardia della maternità. Le situazioni di mobbing sono all’ordine del giorno, (negli ultimi 5 anni in Italia i casi di mobbing sono aumentati del 30%), spesso subiamo demansionamenti, trasferimenti e discriminazioni perché siamo considerate meno produttive e meno disponibili agli straordinari.
Sull’altare della produttività imposta dal capitale sono le donne le prime ad essere sacrificate. Negli ultimi 2 anni 800.000 donne sono state costrette a licenziarsi o dimettersi a causa degli effetti del mobbing post partum, discriminate per la loro condizione di mamme o per aver avanzato richieste di conciliare il lavoro con la vita familiare.
Denunciamo la condizione di stress lavorativo cui siamo sottoposte in tutti i luoghi di lavoro perché è disumano pensare che qualsiasi persona possa accollarsi la responsabilità del lavoro familiare e di cura e contemporaneamente sostenere ritmi di lavoro che impongo aumento dei carichi, frazionamento dell’orario lavorativo, dislocazione su più servizi e sedi di lavoro diverse a fronte di retribuzioni e salari che a stento consentono di arrivare alla fine del mese. Gli effetti di questo doppio lavoro portano spesso alla sindrome di Burn-out caratterizzata da esaurimento emotivo come conseguenza di un sovraccarico di stress, ed è il risultato di una esagerata richiesta di impegno rispetto alla risorsa interiore del momento.
Come se non bastasse, i dati Istat mostrano che gli incidenti in itinere che coinvolgono le donne (si definisce in itinere l’infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione al posto di lavoro o durante il normale tragitto che collega due posti di lavoro o a quello di consumazione dei pasti qualora non esista una mensa aziendale) sono in aumento. Gli infortuni mortali in itinere su strada sono circa il 50% delle morti sul lavoro e di questi più della metà coinvolgono donne.
Le donne sono più esposte perché impegnate in lavori più frammentati e perché costrette a incastrare e conciliare l’attività lavorativa con quella familiare che le costringe a una maggior necessità di spostamenti e a distrazioni causate dal cumulo di responsabilità.
Se guardiamo i dati Istat sull’incidenza delle malattie professionali riscontriamo che sono in aumento per le donne. Patologie quali malattie del sistema osteo muscolare e del tessuto connettivo, in particolare tenditi e dorsopatie e sindrome del tunnel carpale, rappresentano il 75% delle denunce all’INAIL e il 90% di queste è denunciato da donne.
Numerose sono le testimonianze che giornalmente raccogliamo di donne massacrate da orari impossibili e richieste di aumento di velocità della prestazione dovuta principalmente alla carenza di organico eppure i dati Istat riportano un numero inferiore di infortuni denunciati dalle donne (circa 1/3 degli infortuni denunciati dagli uomini).
Spesso sottovalutate quando denunciamo malattie professionali, perché “normalmente” considerate assimilabili a patalogie tipiche connesse al lavoro di cura domestico, siamo costrette a subire il ricatto del silenzio e accettare mansioni lavorative dannose alla nostra salute perché il demansionamento o inidoneità alla funzione possono causare trasferimenti e mettere a il rischio il posto di lavoro. Con ripercussioni particolarmente gravi laddove le donne hanno intrapreso o intendono intraprendere percorsi di autonomia dal partner e conseguenze tragiche nei casi di violenza domestica.
Perché nonostante questi dati lo studio della valutazione dei rischi in funzione del genere non approfondisce la ricerca e non porta ad un sistema di protezione e dispositivi di sicurezza e riduzione del danno per le donne? Perché INAIL e INPS non adottano strategie per contrastare il rischio promuovendo una diversa organizzazione del lavoro a tutela delle donne da abusi, ricatti, discriminazioni ?
Cosa succede poi quando la salute non ci sostiene? Quando malattie importanti interrompono la nostra già complicata e faticosa routine e pretendono assiduità e ripetitività di percorsi di cura, controlli medici, terapie sia fisiologicamente che psicologicamente spossanti? Quali garanzie di vera tutela della salute abbiamo quando dobbiamo rientrare al lavoro per evitare il superamento del periodo di comporto anche se le forze non ci bastano?
Siamo nelle scuole, nelle mense, negli uffici, in laboratorio, negli studi professionali, negli esercizi commerciali, in ospedale, nelle case, guidiamo autobus, treni, aerei, insegniamo all’università, facciamo ricerca, lavoriamo per la pubblica amministrazione, le multinazionali, le cooperative, l’industria, il terzo settore, le multiutility, per imprese grandi e piccole e per privati eppure leggiamo ancora sui testi scolastici che “il Papà lavora e legge, la Mamma cucina e stira”. Forse si tratta di fantascienza e comunque fa venire i brividi!
La doppia esposizione al rischio, quelle cui siamo sottoposte prima sul luogo di lavoro e dopo tra le mura domestiche non è riconosciuta. Al contrario riscontriamo un maggior riconoscimento di malattie professionali per gli uomini piuttosto che per le donne. Siamo più ricattate, viviamo spesso peggiori condizioni lavorative eppure abbiamo un minore riconoscimento di malattie professionali e nessuna erogazione di prestazioni di cura o economiche, nessun indennizzo.
Anche sul lavoro come nel contesto sociale la lettura delle nostre scelte di vita e autonomia risponde sempre alla stessa logora e sessista logica : “ce la siamo cercata” e quindi è anche un po’ colpa nostra se poi non ce la facciamo a movimentare carichi troppo pesanti, non arriviamo agli scafali alti perché troppo basse o soffriamo di nausea già al secondo mese. Se decidiamo di diventare madri o di rimanere single, se scegliamo o più spesso accettiamo per necessità un lavoro che sia “tipicamente femminile” o meno, quando avanziamo richieste di tutele e diritti sul lavoro siamo svilite e screditate perché giudicate sempre inadeguate o al massimo compiante come vittime.
NON CI STIAMO PIU’. Sottomissione, vittimizzazione, sfruttamento, discriminazione, mobbing, paura, ricatto, sono le parole che descrivono la condizione di tante. E’ da tempo che abbiamo scelto di utilizzarne altre: rispetto, libertà, welfare, dignità, reddito, autodeterminazione.
L’8 marzo siamo in sciopero per gridare queste parole. Istituzioni, governo, enti pubblici e privati non potranno fare a meno di sentire.
Mala Servanen Jin – Pisa