Pubblichiamo un articolo dell’edizione cartacea di Riscatto del mese di aprile. Negli ultimi giorni la dirigenza Apes e l’assessora Zambito sono intervenuti sui quotidiani locali riguardo alla questione “morosità colpevole”, i cosiddetti furbetti delle case popolari. Al riguardo questo articolo di alcuni mesi fa spiega il funzionamento del piano di rientro e dà qualche chiarificazione rispetto ai numeri che vengono riportati sui giornali.
La casa popolare nell’immaginario collettivo è vista come un traguardo verso una tranquillità economica a lungo termine. La realtà ci parla di ben altro: dall’aumento degli sfratti per morosità sino alla recente legge Saccardi si è delineato un percorso di precarizzazione del diritto alla casa che ha investito anche l’ Apes (Azienda Per l’Edilizia Sociale). L’oggetto di questa trasformazione sono gli inquilini, attuali e futuri.
Dal 2013 l’Apes ha iniziato a parlare di “guerra ai furbetti” indicando con questo eufemismo gli inquilini morosi. A partire da tre anni fa l’Azienda Per l’Edilizia Popolare ha deciso di provvedere autonomamente (non più tramite la Sepi) al recupero coattivo delle morosità degli inquilini. Con questo nuovo regolamento la morosità pregressa può essere restituita in rate (sino a 90), ma l’Ente può decidere di rientrare in possesso della morosità anche tramite pignoramenti delle automobili e/o del quinto dello stipendio.
Nel corso degli anni l’emanazione di provvedimenti contro gli inquilini morosi è sempre in aumento: diffide (1788), ingiunzioni di pagamento (619), fermi amministrativi (85), pignoramenti (31), decreti ingiuntivi (66), le rateizzazioni sono invece 804.
Questo febbraio l’Azienda lamenta un milione di euro in meno rispetto ai pagamenti previsti: di 6,461,007 milioni di euro ne sono stati pagati 5,314,135. Un buco di bilancio dovuto, secondo il presidente dell’Apes Bani, a furbetti eticamente irrispettosi che vorrebbero vivere senza pagare gli affitti.
Dietro questi dati cosa si nasconde, qual è la realtà?
Alla radice il problema è che lo Stato taglia i soldi da destinare all’edilizia pubblica. L’Apes di conseguenza deve battere cassa cercando di racimolare il denaro necessario alle manutenzioni degli alloggi e agli investimenti quasi esclusivamente sugli affitti degli inquilini. Tutto ciò crea un clima ed una retorica in cui i responsabili della decadenza dei servizi abitativi sarebbero i morosi, coloro che non pagano. In questi anni negli sportelli dei comitati di quartiere hanno preso vita delle lotte e delle rivendicazioni che ribaltano questo punto di vista a partire dal fatto che l’Apes in primis non rispetta il contratto d’affitto: vengono richiesti i soldi dell’affitto e del condominio ma le manutenzioni straordinarie non vengono sistematicamente fatte. Morale della favola: sfratti per morosità da case fatiscenti per cui l’Azienda ha incassato per anni affitti senza mai fare i lavori di ristrutturazione.
In questo articolo analizziamo più nello specifico il meccanismo dello sfratto e del piano di rientro, ovvero della procedura con cui l’Apes prova a recuperare il credito dovuto dalla mancata riscossione dell’affitto. Per fare ciò prendiamo ad esempio la storia di Matilde, residente da anni al CEP. Le sue disavventure nascono circa 10 anni fa con la perdita del lavoro e la separazione dal marito, da quel momento non ci sono più i soldi per pagare l’affitto. Come in tanti casi succede, nonostante la casa assegnatale dall’Apes fosse sfornita dell’impianto elettrico a norma, del riscaldamento e degli infissi, il mancato pagamento dell’affitto era vissuto come una vergogna e una colpa. Per l’attribuzione del canone d’affitto è necessario fornire all’Apes il reddito familiare (CUD, 730 etc) ogni due anni. Matilde, come tanti in questo caso, per timore non consegna la documentazione e di conseguenza finisce in fascia K. Il canone K si applica quale canone sanzionatorio a seguito di mancata presentazione dei redditi, il cui importo può arrivare fino a 500€ mensili. Questa situazione perdura per diversi anni e con questo calcolo del canone di locazione, il “debito” aumenta vertiginosamente. A questo punto, dopo varie diffide e l’ingiunzione del pagamento, parte la procedura di sfratto esecutivo. E’ in questo momento che l’Apes entra nella fase “dura”. Avvocati ed ufficiali giudiziari minacciano di ricorrere all’uso di polizia e carabinieri per fare sgomberare l’alloggio. Per evitare tutto ciò a questo punto Matilde decide di accettare la “proposta” fatta dall’azienda: un pagamento immediato di 5mila euro per ridurre il debito ed in seguito un “accordo” che prevede la rateizzazione del rimanente debito tramite bollettini di circa 200 euro. In questo lasso di tempo lo sfratto viene “sospeso”. Dietro il ricatto e la minaccia di essere sbattuti fuori casa la famiglia si indebita con una finanziaria e paga prima i 5 mila euro e per un po’ di tempo i bollettini. Ma la condizione economica della famiglia continua ad essere precaria. Poco lavoro e pochi soldi non bastano per continuare a pagare le rate all’Apes e di conseguenza l’accordo fatto si interrompe. E’ così che Matilde riceve, nonostante i sacrifici e il prestito contratto per pagare i 5 mila euro, di nuovo l’avviso della visita dell’ufficiale giudiziario. Lo sfratto “riparte” e il meccanismo senza fine del debito continua a gravare sulla tranquillità appena ritrovata della famiglia. A questo punto Matilde capisce che questo “giochino” è una truffa. Sull’accordo firmato l’anno precedente sotto il ricatto dello sfratto, non c’era neanche scritto che Matilde aveva pagato i 5mila euro! Si dirà: perchè allora è stato firmato quell’accordo? Dietro la difficoltà anche solo di leggere una proposta fatta dall’Apes c’è in primo luogo una grande paura, quella di perdere l’unica risorsa fissa che uno ha, la casa. C’è inoltre la solitudine, che ti porta ad accettare come verità indiscusse i “calcoli” ed i documenti che gli uffici dell’Azienda ti propongono. Non viene vista alcuna alternativa al “pagare”. Ma questa situazione diventa insostenibile ed è per questo che Matilde inizia a contestare il “calcolo” del debito. Qual era la reale situazione economica e sociale del nucleo familiare nel mentre gli veniva addebitato il canone k a 500 euro per una casa popolare dove ogni manutenzione è stata fatta dal nucleo stesso? Uno stato di disoccupazione continuativo, alternato da lavori sottopagati in cooperative. Una condizione economica da “canone sociale” che, prima della Legge Saccardi, era pari a 20 euro mensili più spese condominiali (per servizi inesistenti). Da 500 a 20 euro c’è un bel po’ di differenza. Calcolatrice alla mano, Matilde “scopre” che con i 5 mila euro già pagati tramite finanziaria il “debito” sarebbe già estinto “da quel dì”. E quindi lo sfratto che ha ripreso il suo corso di raccomandate, ingiunzioni di pagamento, visite dell’ufficiale giudiziario etcc… è da considerarsi illegittimo! MATILDE DI CASA NON ESCE e soprattutto la lotta è quella di rivedere l’accordo e di stralciare il debito rimanente!
A questo punto vale la pena considerare una misura che ha fatto nel 2013 il LODE, il consorzio tra i comuni pisani che gestiscono il patrimonio delle case popolari, ma che MAI è stato applicato: “che prevede la presa in carico dei servizi sociali del pagamento del canone sociale (anche attraverso i servizi stessi) e la sospensione della morosità pregressa”. Ovvero, nei casi di difficoltà economica accertata, il debito può essere sospeso, e addirittura il servizio sociale può farsi carico di contribuire al pagamento dell’affitto!
Quante sono le famiglie che subiscono le pressioni per pagare affitti all’Apes, che rischiano l’esecuzione dello sfratto per morosità, che perdono con pignoramenti e fermi amministrativi le proprie auto (che magari usano per andare a lavoro), che soffrono, si vergognano e si sentono in colpa? Tutto questo potrebbe essere evitato semplicemente rivendicando l’applicazione di quella delibera e del principio per cui i debiti illegittimi non si pagano!
Tutte quelle persone che pagano centinaia di euro al mese di condominio e di affitto nelle case popolari e che si ritrovano in condizioni di difficoltà a seguito di perdita o diminuzione del lavoro o di altre “crisi”, non devono subire la morosità come una colpa. Gli strumenti e le possibilità per liberarsi da questa situazione ci sono, senza indebitarsi, senza impaurirsi, senza sottomettersi.
Il primo passo è parlarne, discutere e contestare quei grigi calcoli per cui chiamano le persone in difficoltà “morosi”!