La violenza sulle donne, fino alla sua conseguenza più estrema, il femminicidio, continua a essere una costante della nostra società. Per lungo tempo è stata una violenza troppo spesso nascosta, minimizzata, negata; il linguaggio comune, specchio della nostra società, definiva l’omicidio della propria compagna o ex compagna come “passionale”, ancora sui nostri giornali siamo costretti a leggere articoli vergognosi del tipo: “l’ha uccisa perché la amava troppo e non poteva stare senza lei”. Questa violenza, è bene ricordarlo, non ha nulla a che vedere con la passione o con il troppo amore, ma riguarda invece il considerare una persona come una propria proprietà, di cui poter disporre a piacimento o addirittura potersi sbarazzare; è questa è un’attitudine ancora troppo radicata nella nostra società patriarcale.
Nei primi mesi del 2018 sono stati più di venti i femminicidi, con una media di uno ogni due giorni. Una strage quotidiana che, anche grazie al movimento Non Una Di Meno, inizia ad avere più attenzione e non essere relegata a semplice cronaca nera. Ma quando si arriva a discutere delle possibili soluzioni troppo spesso si sente ancora dire che servirebbe più polizia, più controllo, leggi e pene più severe. Questa è una deriva molto pericolosa, perché mira ad aumentare la militarizzazione dei territori, usando ancora una volta il corpo delle donne come pretesto. Allo stesso tempo viene ostacolata l’unica vera strada alla violenza domestica, quella educativa: a causa della propaganda politica e delle associazioni di genitori fanatici, nelle nostre scuole è diventato sempre più difficile poter parlare di educazione al rispetto e alle differenze.
Verso la fine di febbraio una tragica vicenda ha acceso i riflettori su un altro aspetto spesso poco considerato: i femminicidi e le violenze domestiche commesse da poliziotti e uomini in divisa. A Latina un carabiniere, non sopportando la separazione dalla moglie, l’ha attesa sotto casa e le ha sparato, ferendola gravemente ma non riuscendo a ucciderla. Si è poi barricato in casa con le figlie, le ha assassinate e si è infine tolto la vita. Luigi Capasso, questo il nome dell’omicida, non è certamente il primo appartenente alle forze dell’ordine che prova, e spesso purtroppo riesce, a uccidere la compagna con l’arma di ordinanza.
Nel 2017 in Italia ci sono stati 117 femminicidi (uno ogni tre giorni); tra questi, ben dieci sono stati commessi da uomini appartenenti alle forze dell’ordine. Si tratta di un dato agghiacciante: a livello statistico i femminicidi commessi da uomini in divisa risultano essere l’8,5%. Se invece consideriamo solo quelli commessi con arma da fuoco, la percentuale è ancora maggiore: il 75% (tre su quattro) vede come responsabili membri delle forze dell’ordine. Per completare queste statistiche occorrono altri dati. Nel 2017 in Italia gli appartenenti alle forze dell’ordine erano circa 700.000, su una popolazione complessiva inferiore ai 60 milioni. In percentuale, quindi, le persone in divisa risultavano essere 1,2% della popolazione. A questa irrisoria percentuale di persone si deve l’8,5% dei femminicidi; comparando questi dati risulta che gli apprtenenti alle forze dell’ordine, in media, compiono questa infame violenza SETTE volte di più rispetto al resto della popolazione.
L’Italia è uno dei paesi più militarizzati al mondo, dove le forze dell’ordine si sono più volte macchiate di abusi vergognosi; nella maggior parte dei casi le loro violenze sono state tollerate o addirittura coperte dai superiori, e troppo spesso abbiamo visto dei veri e propri torturatori fare una brillante carriera in polizia. Un’attitudine all’impunità assoluta da parte di chi detiene per conto dello Stato il monopolio della violenza, è assolutamente pericolosa. Questa certezza di poter esercitare impunemente violenza siamo abituati a vederla all’opera nelle piazze, nelle retate, nelle caserme; questi dati ci confermano che, in maniera ancora meno visibile, è un’attitudine all’impunità che miete vittime anche all’interno delle mura domestiche.
Anche e soprattutto per questo la violenza di genere non si può combattere chiedendo più polizia e più militarizzazione; quello di cui abbiamo bisogno è aumentare i percorsi di autonomia delle donne, le loro lotte la loro forza e i loro spazi autogestiti, per far crescere una cultura capace di incrinare la narrazione sessista che ci circonda e che fa da habitat a questi tipi di violenza.