Il carcere non è immune dalla diffusione del contagio da coronavirus. All’opposto, esattamente come tutti gli altri luoghi contraddistinti da un elevato grado di vulnerabilità – quali gli insediamenti informali o i centri di trattenimento migranti –, la prigione mostra tutta la sua fragilità nel far fronte alla pandemia globale. Le mura di cinta che dividono la popolazione reclusa dalla società libera, lungi dal rappresentare un dispositivo di prevenzione nei confronti dei soggetti internati, trasformano il segregato e angusto spazio carcerario in una potenziale fonte di proliferazione del virus. In una prima fase, in seguito alle enigmatiche e incomplete circolari emanate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per fronteggiare la diffusione del Covid-19, molti degli istituti di pena italiani sono stati segnati da episodi di rivolta, i cui esiti si sono talvolta rivelati fatali. L’unica strategia adottata dai provvedimenti coincideva con il divieto d’accesso al carcere per la comunità esterna, concretizzatosi nella sospensione dei colloqui con i familiari e con l’ingresso negato ai volontari. Tali interventi non hanno in alcun modo apportato miglioramenti alla realtà detentiva: il distanziamento sociale è impraticabile, le presenze in carcere restano nettamente più alte rispetto alla capienza regolamentare e gli spazi si mostrano ben lontani dall’essere salubri ed igienizzati. Con il decreto Cura Italia, il governo introduce alcuni articoli che tentano di alleggerire i numeri del sovraffollamento, ma, data la scarsa portata delle misure pensate – destinate solo ai condannati definitivi e ai semiliberi –, l’impatto delle scarcerazioni si dimostra talmente debole da non raggiungere un numero idoneo rispetto alla capienza regolamentare (se a fine febbraio la popolazione detenuta ammontava a 61.230 unità a fronte di 50.931 posti disponibili, a fine marzo i ristretti sono 57.846). In questo scenario, la situazione del carcere di Pisa, le cui condizioni di vivibilità risultano già gravemente compromesse dagli spazi stretti e fatiscenti, si contraddistingue per essere particolarmente drammatica: alle carenti risposte istituzionali giunte dal livello centrale, si aggiunge una presa in carico del tutto discutibile da parte dello specifico istituto. A fronte di una generale carenza dei dispositivi di sicurezza, prime tra tutti le mascherine chirurgiche, il carcere di Pisa si mostra particolarmente disattento sul fronte prevenzione: in un primo momento, infatti, le direttive interne sembrano palesemente chiedere ai pochi operatori provvisti di mascherina di non indossarla, al fine di evitare allarmismi tra i reclusi. Tale decisione, oltre a comportare una diffusione del virus particolarmente incisiva nella struttura pisana (ai primi di aprile 40 poliziotti penitenziari avevano la febbre e 10 persone risultavano positive: 7 agenti e 3 sanitari), ha sollevato i malumori dei sindacati che, sollecitati dal personale, hanno diffuso la notizia a livello mediatico. Tuttavia, le lamentele non provengono unicamente dai dipendenti, queste le parole di un detenuto: «Quasi nessuno aveva la mascherina e la cosa peggiore è che era presente una guardia con sintomi influenzali! Quando gli ho detto di mettersi una mascherina perché in quelle condizioni avrebbe rischiato di essere contagioso, sorridendo mi ha risposto dicendo di non essere infetto dal virus […] Non avevamo mascherine e ci invitavano a mantenere la distanza di un metro l’uno dall’altro, ma è impossibile: abbiamo celle di 6 m2 con letto a castello, non si può mantenere questa distanza! […] Mancavano le mascherine e i prodotti per l’igiene e la cosa più drammatica è stata quando ho scoperto che erano contagiati più di 4 agenti e dei sanitari […] Hanno dichiarato di aver effettuato i tamponi ai semiliberi prima dell’uscita, ma non è così, è stata solamente misurata la temperatura».
Rispetto ai dati raccolti attraverso l’operato di Garanti, avvocati e associazioni di volontariato, appare chiaro come la situazione carceraria circa l’emergenza Covid-19 sia abbandonata ad un ennesimo lassismo istituzionale. La situazione del Don Bosco conferma il disinteresse politico nei confronti del problema. Per scongiurare che gli istituti di pena si tramutino in vivi focolai di malattia, la realtà penitenziaria necessita di un’immediata e concreta presa in carico a partire dalle istanze dei detenuti che vivono e subiscono la struttura, le sofferenze che procura e i suoi pericoli.