Ripubblichiamo di seguito un documento della Mala Servanen Jin – Casa delle donne che combattono sull’accesso ai servizi legati alla disabilità. Le discriminazioni e violenze attraversano anche questi spazi, per cambiare bisogna rompere il silenzio. In fondo alla pagina il video realizzato a partire da questo testo.
Si, io ti credo. Quando denunci la violenza subita dal fidanzato, dal marito che volevi lasciare o da cui ti sei separata, dallo sconosciuto che ti ha stuprato mentre qualche giudice cerca invece di inquisire te e giustifica loro, sostenendo che la colpa è anche un po’ tua perché non sei capace a mediare o vai in giro sola la sera o avevi bevuto.
Si, io ti credo. Quando accusi il tuo datore di lavoro di molestie e ricatti continui che non ti permettono di lavorare con serenità e ti costringono a guardarti sempre le spalle o quando metti a rischio salario e occupazione perché rifiuti l’ennesimo trasferimento o frantumazione dell’orario di lavoro perché sai di non farcela con i figli. Quando ti dici stanca di portare il peso del lavoro e della famiglia che non ti lascia libera di ritagliarti un minuto neppure la domenica, perché ti hanno messo di turno al supermercato o devi fare la spesa.
Si, io ti credo. Quando alzi la voce all’ufficio del lavoro o ai servizi sociali perché non hai i soldi per pagare l’affitto, ti hanno sfrattata o non sai come campare, e pretendi alternative di vivibilità.
Si, io ti credo. Quando rivendichi che la salute tua, dei tuoi cari, di tutti è un diritto, e non è giusto che qualcun altro decida al posto tuo se vuoi portare a termine o no la gravidanza o ti costringa a farti carico di un supplemento di lavoro di cura perché il servizio sanitario nazionale ha scaricato sulle tue spalle quote consistenti dei suoi tagli all’assistenza ai malati.
Si, io ti credo. Quando ti è toccata una malattia o disabilità, temporanea o definitiva che sia, e ti senti che questa volta non sai come farai a reggere il colpo e ti arrabbi perché la tua forza e le tue energie vanno bene solo quando ti sfruttano ma nessuno ti crede più quando rivendichi diritti, dignità, autodeterminazione. Allora è più comodo accusarti di vittimismo, dire che esageri, che sei emotiva, nevrotica, stressata o magari troppo “furba”.
Si, noi ti crediamo. Perché la violenza che denunci colpisce tutt* noi. Perché la tua condizione è quella che viviamo quotidianamente anche noi . Donne che abitano tutte le latitudini del pianeta. La tua esperienza di vita è la nostra. Non sei sola.
In un quadro generale dove welfare e politiche sociali sono oramai ridotte all’osso denunciamo la discriminazione e violenza multipla vissuta dalle donne con disabilità.
Mentre la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (3/12/2006) – ratificata dall’Italia (legge n.18 de 03/03/2009) e recepita dalla Regione Toscana (legge regionale 45 del 2017) – afferma che “ Gli Stati riconoscono il diritto delle persone con disabilità ad un livello di vita adeguato per sé e per le proprie famiglie … e riconoscono il diritto delle persone con disabilità al godimento di questo diritto senza discriminazioni fondate sulla disabilità .. e prenderanno misure appropriate.. per assicurare l’accesso delle persone con disabilità, in particolare alle donne e alle ragazze con disabilità e alle persone anziane con disabilità, ai programmi di protezione sociale ed a quelli di riduzione della povertà” (art.28), sulla base delle nostre esperienze e delle testimonianze raccolte abbiamo verificato la quasi totale assenza di politiche di sostegno capaci di garantire a chi vive situazioni di disabilità autonomia e autodeterminazione della propria vita.
Donne giovani e meno giovani che vivono difficoltà fisiche e psicologiche dovute a patologie di varia natura e che hanno tentato di accedere a quel minimo di tutele e sostegno esistenti, si sono ritrovate davanti un vero proprio percorso ad ostacoli. Mentre sulle “Carte” – che siano internazionali nazionali o territoriali – lo Stato si vanta di attuare politiche non discriminatorie nei confronti di chi vive difficoltà a causa di una malattia, quando ti ritrovi a non sapere come “aggiustarti” con il lavoro, come coprire le spese mediche o come arrivare in fondo al mese se non hai un salario, puoi toccare con mano la completa mancanza di informazione e trasparenza su come accedere ad una qualche forma di welfare.
E allora scopri da amiche e conoscenti, (se ne hai e se non hai barriere linguistiche perché sei straniera, visto che non ci sono adeguati sportelli informativi), che devi avere la certificazione del medico curante che attesta la natura delle infermità invalidanti e la trasmette all’INPS, (costo variabile da 60-80 euro), devi farti assistere da un patronato che inoltra domanda di invalidità civile all’INPS e che devi attendere tempi più o meno lunghi prima di essere convocata da una Commissione ASL. Si, perché le tue difficoltà saranno valutate sulla base di un punteggio che ti viene assegnato.
In prima convocazione sei chiamata dalla Commissione Sanitaria ASL: non sai chi hai davanti perché nessuno si presenta, non ti viene comunicato se c’è uno specialista della tua patologia e l’impressione che ne ricavi è che non sei più valutata come persona. Nessuno ti domanda come stai, sei solo una patologia cui assegnare un punteggio. Un punteggio in % che ti darà più o meno diritti sull’accesso al welfare .
Un percorso duro perché già sopporti il peso della patologia che ti compromette la vita anche nelle semplici cose quotidiane o nel lavoro, ma se la tua percentuale è inferiore al 74%, l’impegno delle istituzioni è quasi niente, giusto l’accesso alle categorie protette (46% e poi “ti metti in fila al Centro per l’impiego” per il collocamento “mirato”) e un poco di assistenza sanitaria e qualche agevolazione fiscale (con il 67% accedi all’esenzione parziale del ticket) e nessuna prestazione economica.
Ed è a partire da questo 74% certificato dalla prima Commissione che il sistema diventa ancora più spietato, perché nonostante le tue condizioni di salute siano invalidanti assai, l’INPS ritiene sia meglio verificare ulteriormente prima di aprire i cordoni della borsa. Sopra il 74%, che da diritto ad un minimo di prestazioni economiche, da persona diventi un costo, una voce di spesa. Potresti accedere ad una pensione di invalidità parziale di €.286,81/mese (se non lavori e sempre che il reddito annuo non superi €.4926,35) o a un assegno ordinario di invalidità (se sei lavoratore dipendente o autonomo, hai versato almeno 5 anni di contributi di cui almeno 3 nei 5 anni precedenti la domanda).
Quindi la protezione sociale si riduce a una miseria ma nonostante ciò questo “traguardo” è faticoso e irraggiungibile per tante. Capita infatti che l’80% di invalidità certificato dalla prima Commissione ASL determini che il verbale sia soggetto a revisione da parte dell’INPS. Vieni allora chiamata a visita medica diretta dall’INPS che in maniera più o meno arbitraria può decidere anche di ridimensionare il tuo punteggio o addirittura azzerarlo.
Sei sola con un medico dell’INPS che invece di preoccuparsi del tuo benessere e della tua salute ti mette sotto processo perche pensa che sei una truffatrice che vuole estorcere allo Stato ben 286 euro di sussistenza minima. Diventi un’indagata come potenziale bugiarda. Nonostante le certificazioni mediche rilasciate da Enti pubblici, il medico INPS deve cercare di risparmiare sul numero di erogazioni concesse e ti mortifica e umilia quasi accusandoti di mentire sulla tua patologia e il disagio che comporta . Sei sottoposta ad interrogatorio e se sei straniera o non hai abbastanza strumenti linguistici o tecnici, le difficoltà aumentano. Il medico esercita il suo potere gerarchico e decisionale. Sicuramente non ti crederà perché all’INPS non interessano i tuoi diritti né tanto meno le tue necessità ma esclusivamente il bilancio economico e gli eventuali premi e incentivi a coloro che negano malattia e invalidità.
Nel marzo 2018 Tito Boeri firma infatti una delibera che introduce le prestazioni per malattia negate e invalidità revocate tra i criteri di valutazione utili agli incentivi di produttività dei medici INPS. Un’aberrazione del tutto avversa alla deontologia medica che ci fa bene comprendere l’arbitrio totale che governa questo percorso. Finisce che spesso devi ricominciare tutto da capo, ripresentare la domanda, fare ricorsi perché se non sei proprio in fin di vita o in fase terminale non ti riconoscono niente e faranno il possibile per scoraggiarti e farti rinunciare a quel poco che ti spetta
Loro non ti credono, ti giudicano e basta.
Noi ti crediamo. Non è una percezione soggettiva la tua, non è perché sei inadeguata o incapace se esci umiliata da questi colloqui. Per l’Istituto di Previdenza Sociale sei semplicemente lo strumento che deve garantire eventuali risparmi e profitti ad un sistema fondato su logiche aziendalistiche piuttosto che di welfare.
In buona sostanza il sostegno alla disabilità è praticamente nullo, il peso della malattia e delle tue difficoltà gravano completamente sulle tue spalle e ti devi arrangiare. Lo Stato e le Istituzioni ti condannano ad una vita di rinunce e limitazioni. E questo è violenza.
Per questo gridiamo a gran voce che siamo stufe di proclami e buoni propositi che rimangono sempre e solo sulla Carta. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle tutti i percorsi possibili, qualcuna magari si è rivolta anche ai servizi sociali ma anche lì, se non ti certificano una % di disabilità che va oltre il 70%, non sei considerata.
La realtà è quella di uno stato sociale distrutto dove le persone, e le donne tra le prime, non sono considerate portatrici di diritti ma oggetti di sfruttamento utili al funzionamento del sistema dei profitti, quello stesso sistema che vuole mettere a valore ogni istante della tua vita.
Per questo gridiamo a gran voce che non siamo invisibili, che non ci stiamo più a essere oggetto di sfruttamento e discriminazione perché dentro e fuori le mura domestiche esigiamo un cambiamento. Politico economico ma anche sociale e culturale.
Il diritto alla salute deve essere garantito per tutt* perché la salute non si può nè si deve monetizzare. Rifiutiamo tutti gli stereotipi che ci attaccano normalmente addosso compreso quello della “diversità” determinata della nostra condizione di salute solo perché non siamo normodotate/bianche/europee/cisgender.
Vogliamo che l’educazione alle differenze di genere e la disabilità diventino parte integrante dei programmi educativi scolastici. Vogliamo sportelli informativi dove sia garantita trasparenza e accessibilità a tutt*. Vogliamo servizi adeguati perché se siamo mamme abbiamo bisogno dell’asilo nido e dello scuolabus, se siamo figlie non vogliamo rottamare i nostri cari anziani, se siamo caregiver non vogliamo più farlo gratuitamente. Vogliamo una città a misura delle persone, senza barriere architettoniche e che possiamo attraversare come e quando desideriamo. Vogliamo risorse economiche per l’autodeterminazione delle nostre vite. Vogliamo uscire dai ruoli che ci hanno cucito addosso solo per creare vantaggio a questo sistema patriarcale capitalista che concepisce disabilità e diversità come condanna piuttosto che come opportunità.
Non sei sola. Noi ti crediamo. Tutt* insieme ci riprenderemo quello che ci spetta. La mobilitazione è già iniziata e non si fermerà. Vogliamo tutto.