Da qualche mese è uscito al cinema questo film dal titolo “non essere cattivo”. Con questo articolo vogliamo invogliare i nostri lettori a guardarlo e, per quelli che lo hanno visto, sottolineare alcuni aspetti del film che sono a nostro avviso molto importanti per chi, come noi, è interessato a cambiare lo stato di sofferenza in cui milioni di persone sono costrette.
Di cosa parla. Non diremo molto della trama. E’ solo la storia di due amici, due ragazzi che vivono e si scontrano con mille difficoltà. Ci sono quattro elementi che vogliamo sottolineare, che non riguardano solo la cittadina di Ostia degli anni 90 (in cui è ambientato il film), ma ci parlano più in generale di alcuni meccanismi che dominano, ancora oggi, la vita vera delle periferie.
La droga, il lavoro, la violenza, l’amicizia: per Cesare e Vittorio -i due ragazzi del film – questi aspetti ricorrono continuamente, ma non c’è soluzione, né buon fine a questi problemi. Il film infatti è un film crudo, che racconta situazioni dure. Questi due ragazzi sono immersi in una quotidianità fatta di consumo di cocaina e pasticche, la loro attività principale è lo spaccio, i loro rapporti (al bar, in casa o fuori in strada) mostrano rabbia e sono all’insegna della violenza. Questo quadro estremo non è una novità per chi vive nei quartieri in ogni angolo del pianeta, ma è il modo in cui queste situazioni vengono raccontate che cambia totalmente il significato di questo film. Perché? È questa la semplice e potente domanda che muove il film.
Cosa c’è dietro le risse in discoteca? Cosa causa una distruzione psico-fisica costante che abbruttisce i due ragazzi, quando calano ecstasy, quando scolano birrini uno dietro l’altro, quando rimediano in ogni situazione quella adrenalina che sembra farli schiantare contro i muri? Sono stupidi, stronzi e teste di cazzo, come ce ne sono a milioni nei nostri contesti. Ma dietro cosa c’è?
La storia quindi va dietro i fatti di cronaca dei giornali, che si interessano ai quartieri solo quando ci sono furti, atti di vandalismo o arresti per spaccio. Si guarda alla mancanza di reddito per migliaia di famiglie, si guarda alla mancanza di cure che diventa triste realtà della morte solo perché non hai i soldi per farti medicare; si guarda alla povertà non come qualcosa di voluto da dio a cui la gente si è rassegnata, ma come condizione imposta in cui tanti sono i movimenti e le contraddizioni e i tentativi di fuoriuscirvi. E’ facile per chi ha sempre avuto alle spalle la sicurezza di una famiglia che ti mantiene e che ti dà molte possibilità, giudicare violenti, rozzi, arretrati e teppisti coloro che non hanno altri mezzi che i loro corpi per guadagnarsi il pane; anche quando le braccia vengono usate per fare a pugni per entrare in discoteca e vendere un po’ di pasticche. E’ facile però anche cullarsi della propria immagine di duro, senza mai mettersi in gioco fino al punto di volere di più e meglio per sé stessi. Il film fa vedere i diversi tentativi di uscire da quella vita di merda, fatta di mancanze e di scontri, seguendo diverse piste.
Un ruolo importante lo ricoprono le sostanze stupefacenti. Cocaina, pasticche, eroina. Sono il vero lavoro per i giovani di queste zone. Procurarle, assaggiarle, studiarle, distribuirle, consumarle costituiscono le attività che risucchiano in un vortice di dipendenza i protagonisti e non solo. Sono i soldi il motivo di questa invadenza: uno non nasce drogato, né spacciatore. Ma non solo: è la continua ricerca di evasione, di adrenalina, di carica e di emozioni forti tali da trasgredire e rompere una normalità fatta di mancanze e assenze. In questo consumo non c’è il giusto o lo sbagliato. Cè una costrizione e degli scontri fatti di sangue, di urla, e di violenza. Ma anche di amore, affetto, sincerità e riscatto: “dai diamanti non nasce niente, dalla merda nascono i fiori” cantava Fabrizio De André.
Non c’è romanticismo: ma espressione di contrasti reali. Il movimento delle immagini di questa storia è spinto dal sale della vita: superare la propria condizione di miseria. Anche a costo di sbagliare; di fare male; di farsi del male; oppure di farsi (di roba). La dignità non è fatta di parole e di finali già scritti con la buona morale; la dignità nel film è scoperta con la delicatezza di una mano che toglie una tenda e libera la visione di un temporale. Sta nella rabbia e nella riscossa tradotta nelle serate di sballo a suon di limoncello, pasticche e decibel; sta nelle corse in macchina e nelle furenti scopate. Sta nel saper soffrire davvero senza bisogno di guardarsi allo specchio mentre si piange. Questa rabbia è un temporale senza soluzione di continuità. E’ lì che la dignità prende piede, e nessuna verità è stata più reale di quell’impeto di autodistruzione che eccita i sensi e non ti fa pensare a nulla. Non siamo esperti di psicologia, ma una cosa la capiamo. Quando si sta male perché non si hanno certezze e “rassicurazioni”, il modo migliore per mandare via i brutti pensieri è stonarsi. È avere sensazioni più forti e più potenti che annullino, sovrastino e caccino le cause della nostra sofferenza. Per questo non è vero che non c’è speranza. C’è una scena in cui i due ragazzi, amici, litigano e si scontrano. Uno dei due prende ripetutamente a schiaffi l’altro: in quei ceffoni c’è più amore che in mille baci visti nei film famosi. Perché sono scene reali, momenti veri che vengono raccontati nel modo in cui chi li vive sa essere proprio così. Ma è il modo in cui questi fatti, i retroscena degli eventi conosciuti, che dà un significato differente a questo film. C’è voglia di scoprire e di riscoprirsi perché chi ha fatto questo film non è interessato allo scoop né alla ricerca del “marcio” da far risaltare in modo infame. Non c’è giudizio esterno, c’è condivisone. E questo è importante perché permette a chi vive, ha vissuto, o ha attraversato quel tipo di situazioni – la miseria, le difficoltà a “svoltare la giornata”, gli attriti con la propria vita in famiglia, a lavoro, al bar del quartiere – non solo di vedersi, ma di ripensare a se stesso senza vergogna, senza rimpianti né rimorsi, ma solo con la voglia di capire “il perché”.
Capirlo per andare avanti e superare le difficoltà.