Oggi si è tenuta la conferenza stampa della rete Non una di meno davanti alla sede della Società della Salute per denunciare quanto la dismissione crescente del welfare si stia abbattendo sulle vite delle donne. Decine giovani, madri, lavoratrici, studentesse, italiane e migranti, si sono presentate davanti agli uffici di via Saragat per protocollare una richiesta di incontro con i dirigenti della Società della Salute e gli assessori al sociale dell’area vasta pisana.
Nel documento sono denunciate le condizioni di violenza che vengono perpetrate all’interno degli uffici nei confronti dell’utenza, che in alcuni casi con coraggio si allontana da situazioni di disagio e crede di trovare nell’istituzione pubblica un sostegno, non trovandolo.
Il documento è stato redatto dal tavolo welfare della rete femminista, che in questi mesi a partire dalla mobilitazione globale dell’8 marzo ha portato avanti innumerevoli iniziative sul territorio. Dalle occupazioni femministe della Mala Servanen Jin e della Limonaia – Zona Rosa, prima sgomberate e poi rioccupate grazie ad un’imponente sollevazione cittadina; fino alla Casa della Donna, centro antiviolenza che quotidianamente si batte per l’affermazione dei diritti delle donne vittima di violenza.
Da queste esperienze che è maturata una profonda e radicale critica alle Istituzione del welfare: la società della salute infatti, consorzio tra comune ed asl, gestisce i servizi sociali a cui sempre più persone – e donne in particolare – si rivolgono a causa delle difficoltà economiche e sociali. Di tale gestione è stata denunciata non soltanto l’inefficacia – a causa di un crescente numero di “espulsi” da questo sistema di “aiuti” fatto di prestazioni economiche, buoni spesa, alloggi per l’emergenza abitativa – ma anche il lato violento ed umiliante cui sempre più spesso le persone che vi si rivolgono sono costrette a subire.
Al di fuori di ogni retorica, il welfare cittadino è amministrato aziendalmente, e per far quadrare bilanci e numeri, le politiche di assistenza impongono regole e procedure che tendono a “risparmiare”, scaricando i costi dell’assistenza sociale sempre più sugli utenti stessi. Un vero e proprio dispositivo che in questi mesi è stato più volte combattuto da donne singole in difficoltà che, ritrovatesi con le porte chiuse in faccia, hanno protestato anche occupando gli uffici oltre l’orario di apertura. Uno scontro che purtroppo si riflette nel rapporto tra assistenti sociali e cittadine, le prime sempre più “costrette” al ruolo di mere esecutrici di indicazioni aziendali e che scaricano sulle seconde la scarsità di risorse destinate dalla Politica al welfare.
Queste politiche aggravano l’impoverimento crescente di tutte coloro che si ritrovano a fare i conti con il problema degli affitti troppo alti e dei salari da fame, ma anche coloro che a causa di violenze domestiche e familiari non riescono ad emanciparsi dalla propria condizione “di vittime” a causa della assenza di politiche di sostegno al reddito ed all’abitare. Un welfare inaccettabile, che invece di redistribuire ricchezza e servizi crea sempre più dipendenza e “marginalità”.
La conferenza stampa di oggi annuncia una intensa stagione di mobilitazione a favore dei diritti delle donne, affinché questa violenza Istituzionale e sociale non si ripercuota più sui corpi e sulle vite di tante.
Di seguito il documento prodotto dal tavolo welfare della rete non una di meno:
Alla Presidente della SdS zona Pisana
Al Direttore della SdS zona Pisana
Ai componenti della Giunta della SdS zona Pisana
Ai Sindaci dei Comuni della SdS zona Pisana
Nounadimenopisa Tavolo Welfare
Documento: Welfare per le donne nella zona pisana. Analisi delle criticità e proposte
Nell’ultimo anno è cresciuto a livello mondiale un enorme movimento femminista contro la violenza in tutte le sue forme: Nonunadimeno. In Italia ha organizzato la grande manifestazione del 26 novembre a Roma con duecentomila persone, tavoli di lavoro nazionali che stanno scrivendo il piano femminista antiviolenza, lo sciopero globale 8 marzo in tantissime città. E’ un movimento ampio, radicale, che vuole tenere insieme e intrecciare le tante differenze: genere, etnia, classe, orientamento sessuale, in una prospettiva di femminismo intersezionale, e che vede interagire generazioni diverse e tantissime giovani donne e uomini. E’ un percorso che anche a Pisa è iniziato con l’organizzazione e la partecipazione al corteo del 26 novembre a Roma e che per la prima volta, dopo molto tempo, ha messo in relazione realtà cittadine, associazioni ed esperienze diverse, anche con pratiche nuove. Abbiamo continuato con il grande corteo dell’8 marzo, partecipato da migliaia di persone. Un corteo al termine del quale sono nate due occupazioni femministe che hanno riaperto due fra i tanti, troppi, luoghi del patrimonio pubblico abbandonati da anni, rendendoli non solo di nuovo fruibili alla cittadinanza, ma sprigionando creatività e socialità, rendendoli spazi di incontro e di iniziative culturali e sociali quotidiane: la Limonaia- Zona Rosa e la Mala Servanen Jin- Casa delle Donne che Combattono, siti rispettivamente in Vicolo del Ruschi 4 e Via Garibaldi 192.
I due stabili, appartenenti rispettivamente alla Provincia e al Comune di Pisa, dopo essere stati entrambi chiusi per anni, senza alcuna destinazione d’uso diversa dalla vendita, sono stati riaperti e riqualificati dalle donne che hanno dato vita a queste esperienze.
Queste due esperienze femministe, che si nutrono di un percorso nazionale, di tematiche e pratiche condivise e che rimettevano al centro i bisogni reali dei e delle cittadine sono state sgomberate. La Limonaia- Zona Rosa il 3 Maggio e la Mala Servanen Jin il 24 Maggio, con l’impiego spropositato di forza pubblica, essendo mancato ogni dialogo da parte delle Amministrazioni.
Le attività svolte in via Garibaldi e Vicolo del Ruschi affrontavano tematiche sociali e sanitarie creando una rete di informazione e comunicazione sui servizi del territorio volte alla prevenzione e alla diffusione dell’accesso ai servizi sulla salute sociale, psicologica, abitativa e sui luoghi di lavoro connessa alle tematiche di genere.
Questi spazi sono diventati punto di ritrovo, socialità, creatività e servizi per le donne della città e non solo mostrando la loro funzione di bene comune e pubblica utilità. Proprio per questo non sono stati dei sigilli a fermare le attività, e il vento femminista che spira in città ha riaperto le porte dei due immobili pochi giorni dopo, l’1 e il 9 giugno.
L’esperienza dello sciopero globale delle donne lanciata dalla rete internazionale “ Ni Una Menos” che l’8 marzo ha interessato quasi 60 paesi nel mondo, ci porta a ribadire che la saldatura con i temi economici del lavoro e del welfare è centrale per combattere la violenza di genere nel suo aspetto sistemico e non emergenziale. E’ necessario, quindi, pensare ad una trasformazione radicale della società e del sistema produttivo, attraverso una risocializzazione del lavoro di cura e di relazione che, ad oggi, è quasi esclusivamente portato avanti dalle donne ed è il prodotto della storica divisione sessuale del lavoro.
Il mancato riconoscimento del lavoro di cura come lavoro produttivo e riproduttivo deriva infatti da una naturalizzazione delle differenze che considera le donne come “naturalmente dotate” di una propensione all’accoglienza e all’accudimento.
Il lavoro femminile è caratterizzato storicamente da intermittenza, gratuità, flessibilità e supplementarità, condizioni sempre più diffuse nel mondo del lavoro e comunque caratterizzate da stipendi da fame, orari di lavoro frantumati in più turni durante l’arco della giornata, messa al lavoro dei tempi di vita e complessiva precarizzazione dell’esistenza. Aggiungiamo che da questo disconoscimento deriva lo sfruttamento di tutte quelle donne che lavorano nel terzo settore come operatrici sociali, la cui professionalità maturata con lunghi percorsi formativi e esperienza sul campo, viene normalmente svilita e sottopagata.
Esiste un nesso stretto tra la ristrutturazione capitalistica in atto e la violenza con cui la dismissione crescente del welfare, in nome del risanamento del debito, si abbatte sulle vite delle donne.
La mancanza di un lavoro stabile e quindi di un reddito su cui poter fare sempre affidamento fa venir meno la certezza di una casa, la possibilità di un’alimentazione dignitosa e la possibilità di accedere gratuitamente al servizio sanitario.
Questa condizione di bisogno fa sì che siano in aumento le donne costrette a rivolgersi ai servizi sociali, dove operano prevalentemente donne, e dove il ruolo dell’assistente sociale gioca un ruolo fondamentale seppur ricco di contraddizioni.
Parliamo di donne che incontrano donne. Un contesto che potrebbe essere di riconoscimento reciproco, capace di superare le superficialità, le rivalità e soprattutto combattere quel sistema gerarchico su cui è fondato il sistema di potere patriarcale. Un sistema di relazioni tra donne, che pur nel rispetto dei ruoli, non riproponga situazioni asimmetriche e gerarchiche, ma che riconosca la reciprocità e la condivisione del portato esperienziale di ognuna di noi come “fondamento per combattere le ingiustizie e le violenze sulle donne”.
Nell’esperienza diretta, che tante donne ci riportano, invece, durante i colloqui con l’assistente sociale, proprio in quanto donne, si sono spesso sentite giudicate, umiliate e considerate soggetti deboli, incapaci di dare voce ai propri bisogni e pretendere diritti. Fin dal primo accesso, le sensazioni riportate e i sentimenti provati sono sempre gli stessi: umiliazione, vergogna e fallimento personale. Umiliazione funzionale a quello che sembra diventato lo scopo del servizio sociale e cioè rendere le donne dipendenti per farle entrare in un meccanismo di isolamento che annienta qualsiasi possibilità di reazione, autonomia e autodeterminazione.
Eppure ben diverso è il ruolo dell’assistente sociale descritto nel Codice Deontologico delle e degli assistenti sociali e che riportiamo per stimolare una riflessione su quanto sta accadendo:
“ Nelle relazioni di aiuto l’assistente sociale ha il dovere di dare, la più ampia informazione sui diritti, sui vantaggi, svantaggi , impegni , risorse , programmi e strumenti dell’intervento professionale….. l’assistente sociale deve salvaguardare gli interessi e i diritti degli utenti….deve riconoscere la centralità della persona in ogni intervento… non deve esprimere giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti….deve riconoscere la famiglia nelle sue diverse forme ed espressioni come luogo privilegiato di relazioni stabili e significative per la persona e sostenerla come risorsa primaria ….ed ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che ne hanno la responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di deprivazione e gravi stati di disagio non sufficientemente tutelati.”
Questi principi su cui dovrebbe basarsi il lavoro dell’assistente sociale, difficilmente li troviamo quando, durante un colloquio, tutta la nostra vita e le nostre scelte vengono giudicate o quando la nostra condizione di madre viene usata come ricatto e viene messa in discussione la genitorialità.
Crediamo che non si tratti di responsabilità individuali, ma piuttosto del fallimento del sistema di funzionamento dei servizi pubblici, frutto di insufficienti politiche Istituzionali.
Ricordando che la Società della Salute è un consorzio composto da 9 comuni della zona pisana, il cui bilancio è strettamente legato ai fondi che ogni singolo comune destina alle attività di assistenza territoriale e alla programmazione del sistema integrato di interventi e sistema sociale, abbiamo assistito ad un progressivo smantellamento dei servizi pubblici, dovuto soprattutto ad una crescente esternalizzazione dei servizi, con conseguente aumento dei livelli di precarietà di chi opera nel terzo settore. Le operatrici sociali si sono trovate, così, sempre più spesso ad intervenire in contesti privi di risorse adeguate, con carichi di responsabilità non riconosciuti, e dove si fa fronte alle necessità e ai bisogni del sociale, sempre maggiori, profittando della buona volontà e della ricattabilità delle lavoratrici.
In questi anni abbiamo assistito ad un apparato che fissa dei limiti ben precisi alla spesa,
ad una penuria di risorse, all’impoverimento dei percorsi di partecipazione dal basso e ad un progressivo arroccamento della Società Della Salute, chiusa al confronto e alla comunicazione con le soggettività, singole e associative, attive sul territorio.
Troppe volte abbiamo incontrato porte chiuse, risibili scuse, disinformazione e completa mancanza di trasparenza. Quando chiediamo di conoscere i criteri di assegnazione dei vari contributi economici e sostegni al reddito, l’esistenza o meno di protocolli, procedure e regolamenti attuativi, riceviamo sempre risposte vaghe.
Quando chiediamo di conoscere come vengono effettuati gli investimenti e come vengono distribuite le risorse o chiediamo il perché, come nel caso dell’emergenza abitativa, le istituzioni attuano scelte in favore dei privati anziché favorire l’indipendenza e l’autonomia delle donne e le loro famiglie, le risposte sono del tutto assenti o addirittura irricevibili.
Proposte, quali lo smantellamento dei nuclei famigliari e l’albergazione, confermano che l’orientamento della Società della Salute non solo è insufficiente, ma necessita di un profondo ripensamento.
C’è bisogno che gli assistenti sociali facciano la loro parte, usando gli strumenti in loro possesso per dare risposte ai bisogni reali, trattando con rispetto e dignità, per garantire l’uscita dalle situazioni emergenziali, per far si che le donne possano essere autonome e in grado di contrastare e prevenire la violenza in tutte le sue forme.
Crediamo però che per intervenire contro la violenza di genere sia necessario attuare politiche concrete di sostegno al reddito e ai bisogni (contributi economici e all’affitto, contributi alla spesa alimentare e dovuta alle utenze, sostegno familiare e scolastico, etc.) provando a individuare strumenti, misure e pratiche che garantiscano l’autonomia e l’autoderminazione a tutte le donne in situazioni di disagio, per sottrarle preliminarmente alla potenziale spirale di violenza data dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento e dall’assenza di servizi. Ed è urgente trovare strumenti specifici di reale sostegno per le donne che hanno avuto il coraggio di intraprendere percorsi di fuoriuscita dalla violenza, e che proprio nella ricerca di lavoro e di una nuova abitazione trovano gli ostacoli più grandi al loro percorso di empowerment.
In questo senso è fondamentale riaffermare la prospettiva femminista ripartendo dalla parzialità e specificità delle condizioni di lavoro e di vita delle donne per affrontare le questioni più complessive legate al lavoro, allo sfruttamento, alla redistribuzione della ricchezza e alla rivendicazione di un welfare universale che risponda ai bisogni delle donne e degli individui.
Chiediamo pertanto un incontro con la Presidente e la Giunta della Società della Salute per aprire un confronto sui contenuti del documento.