Due storie vere
Sono 80 i candidati per 8 posti. Uno su dieci. Viene normale che la commissione di valutazione per l’ammissione al servizio civile regionale presso i musei dell’università di Pisa debba darsi delle coordinate per scartarne nove su dieci. Chissà se poi ci credono per davvero alla validità della selezione che faranno, mi chiedo.
Mi sono appena laureato. Ma tutti tra i 18 e i 30 anni provano almeno una volta a fare domanda per il servizio civile. Sono 400 euro sicuri al mese. Anzi, forse sono fuori tempo massimo. Eppure potrebbe essere una carta a mio favore. Mi faccio qualche calcolo, mi faccio domande e mi do risposte. Da solo.Ultimo anno valido per fare domanda, ho la laurea, un bel voto… farà punteggio. Fa punteggio. Ma che espressione del cazzo.
Quattro giorni fa mi è arrivata la mail di convocazione al colloquio. Mi presento. Meno male che c’è il sole. Anche se in gennaio non scalda, qualche raggio alle 8.30 stempera un clima ingrigito dal dover andare a raccontare di te a degli sconosciuti per un lavoro.
Siamo una ventina. Una o due ragazze sono accompagnate dalla mamma. Penso alle matricole accompagnate dai genitori. Mi chiedo sempre se si tratti di uno svezzamento ritardato o di attività in cui in fin dei conti vieni sempre trattato come un minorato: lo studente non ancora economicamente indipendente, il volontario del servizio civile che non è ancora lavoratore… serve l’accompagnamento.
Oggi si parte dalle lettera P. Ieri, dalla A alla P, erano anche di più, una quarantina. Me lo ha raccontato un mio amico. Ci siamo passati a vicenda le informazioni per fare domanda al bando. Le amicizie crescono nell’andare a caccia di concorsi, bandi, colloqui di lavoro. Ci si spalleggia, ma più spesso si concorre. Mors tua vita mea. E le amicizie finiscono. Non è il nostro caso, ci conosciamo da quando s’era bambini. ma qui al colloquio invece sono tutti soli. Meno quelle due con la mamma.
Iniziano con l’appello dall’alto delle scale che portano alla stanza dove si svolge il colloquio, ma in premessa confermano le notizie su ieri: “Oggi siete di meno, ma in tutto siete un’ottantina”.
E prosegue, “Per questo, considerato che da due anni la Regione ha scelto di non sostituire i volontari che decidono di interrompere il servizio vi raccomando di comunicarci se avete in progetto impegni o attività più stabili e meglio retribuite che vi costringeranno ad abbandonare il servizio. Siate leali o dannegerete il museo”. Ma che cazzo. Leali. L’antifona è chiara: abbiamo bisogno di otto persone che la Regione non intende retribuire come lavoratori comuni bensì come volontari, quindi se ve ne andate mandate in vacca tutto perché siete volontari, cioé, vi consideriamo più come gente che lo vuole fare e non che è costretta a farlo. Sono cazzi vostri, sentitevi responsabili. Fanculo, saranno cazzi della Regione e dell’Università che non ci mettono i soldi. Sorvolo.
Finito l’appello apro il pacchetto di sigarette. Ma prima un’ultima raccomandazione da un membro della commissione, puntuale e gentile, forse un po’ troppo: “non vi allonatanate, è capitato che dovessimo cercare i candidati dappertutto, inoltre si tratta di un colloquio pubblico quindi potete entrare nella stanza ed assistere”. Non ci tengo, ma quasi tutti imboccano le scale. Esco a fumare.
Una tizia fuori parla della sua laurea: pianificazione e non ho capito cos’altro. Si lamenta che al comune di Livorno, dove dovrebbe lavorare una con la sua qualifica, sono tutti delle capre, neanche laureati. Sarà, ma ora lei fa il colloquio per il servizio civile. Immagino si senta ugualmente bistrattata a fare una cosa che non c’incastra nulla con le sue competenze. Nonostante la spocchia forse ha pure ragione. Rientro. Sono tutti su ad assistere ai colloqui probabilmente attenti a carpire chissà quale segreto per spuntarla quando arriverà il proprio turno. Immagino che di trucchi ce ne siano pochi se non un minimo di genuinità compensata dalla giusta scaltrezza per riuscire a vendersi bene e quindi me ne resto giù. Mi siedo sulle scale. Un po’ leggo un libro che mi sono portato da casa, un po’ mi incanto sullo smartphone.
Mi chiamano. Due volte. La seconda con tono seccato. Sono solo due rampe. Ci mettono poco a spazientirsi. Il signore gentile si inacidisce, ma sempre con il sorriso
“Le avevo detto di non allontanarsi”.
“Ero qui sulle scale. Buongiorno”.
In commissione sono in sette, dietro a un tavolo. Manco per la discussione della tesi di laurea. Alle mie spalle una platea di ragazzi e ragazze come me assiste affalcata. Una della commissione (Professoressa?) prende l’iniziativa: “Mi parli delle sue esperienze” mi chiede.
Percorso di studi, esperienze lavorative, etc. “Quale tra i musei dell’università di Pisa suscita maggiormente il suo interesse?” Improvviso. Le parlo della gipsoteca, il museo delle statue, sta dietro casa. Qualche mese fa c’era il Laocoonte. Mi tengo l’informazione per me. Tanto mica le interessa per davvero. Non ci sono neanche andato a vederlo, ero scazzato e un po’ depresso al periodo, quasi mi laureavo e avevo un punto di domanda davanti a me. Questi sono cazzi miei, figurati se devo dirlo a questa gente. Ma poi non crederà che siamo qui perché siamo interessati all’arte e alla scienza? Io no di certo, sono qui per i 400 euro. Per pagarmi le bollette, parte dell’affitto etc. Intanto è qualcosa, poi si vedrà. Immagino, credo, sono praticamente certo, anche gli altri siano in fondo qui per questo. Mi ricordo che mi avevano detto che la gipsoteca era un buon posto per studiare – o leggere? – o che ci avevano fatto un’aula studio. Non ricordo. Invento che ci sono andato a studiare anche di recente. La cosa fa ridere la signora che mi interroga: “questa non è un’interrogazione” mi aveva appena detto. Mi prende in giro come quando provi un esame che non hai studiato e tu il prof sapete che non hai studiato, ma insiste per dimostrarti quanto sei coglione. Sfigato. Lui.
Mi infastidisco, anche perché dietro ridono con la commissione. Porco Dio, come a scuola quando il partito della classe che leccava il culo si accodava all’autorità della cattedra. Non sempre me ne accorgevo. Stavo in fondo alla classe di solito a farmi i cazzi miei o a fare casino. Mi trattengo per non voltarmi e seccarne qualcuno con lo sguardo. Mi si srotola in time lapse una possibile risposta:
“Ma cosa le fa ridere? Che invento cazzate? Non crederà di poter verificare e valutare competenze e qualifiche adeguate per un lavoro da 400 euro al mese per sei ore al giorno, cinque giorni su sette. Un lavoro sottopagato ma considerato volontariato. Siamo in 80 qui per 400 euro cagati. Non si rende conto di quanto tutto questo sia una farsa e una tragedia allo stesso tempo? E lei ride. Di cazzate in questa mattinata ne ha sentite e ne sentirà altre. Ci proviamo perché dobbiamo sfangarla. O crede che siamo qui a sviluppare le nostra passione per il sistema museale accettando un contratto di lavoro schifoso? Se pure qualcuno avesse qui la passione per i musei dovrebbe pisciarvi in bocca perché legate la sopravvivenza del servizio ai volontari del servizio civile”.
Mi tengo lo sfogo. Rispondo solo scandendo le consonanti: “A-me-pi-a-ce-stu-di-a-re-al-la-gi-pso-te-ca”.
Capisce che lo sketch finisce lì e il colloquio prosegue.
“Il suo profilo è scarno. Mi dica se ha fatto attività inerenti al servizio per il quale ha fatto domanda di concorso”.
Invento. “Sì certo, ho fatto da guida turistica in alcuni siti archeologici e alcuni musei, quello di qui e quello di là, facendo questo e quest’altro.”
Sembro credibile. Si compiacciono. Mi sento sollevato.
Ma la professoressa vuole togliersi il sassolino dalla scarpa per la parentesi di prima. Si inventa che la titolatura del corso di studi in cui mi sono laureato non esiste. Due sono le cose: o inventa per davvero anche lei, oppure ci crede talmente tanto a questo colloquio che è disposta a rischiare di cadere nel grottesco. E’ grottesco, sì, ma mi incazzo. Ma guarda te che questa deve dirmi che l’unica cosa che mi posso spendere – e sai che culo! – non è neanche vera. Vorrei sfogarmi di nuovo ma rispondo solo in maniera un po’ robotica.
“Il dipartimento si chiama … il corso di studi nel quale mi sono laureato sotto quel dipartimento è … esattamente come ho scritto nel curriculum e nella domanda di ammissione al servizio civile.”
“Ah. Si impara sempre qualcosa.” Risponde laconica.
Il colloquio finisce lì. Uscendo non guardo gli altri ragazzi in attesa di sedersi al mio posto. Forse per non incrociare sorrisi sarcastici o lo sguardo convinto di chi crede di aver scalzato un concorrente. Al sole mi accendo un’altra sigaretta. Credo di essermi giocato i 400 euro al mese di questo lavoro nei musei per 8 mesi che in fin dei conti così male non è. Se rapportato al servizio civile in altri posti o se messo a confronto al lavoro di venditore porta a porta. Se… se… troppi se comunque, mi dico. Che cazzo. Non è che ho da dar via il culo così facilmente. Proprio no. Non devo. Quasi te lo devi imporre che non-devi perché combatti contro il ti-serve. Penso poi che a furia di continuare a millantare cazzate sul proprio conto per provare a vendersi al meglio una persona non può non cambiare, diventare in fondo un cazzone, uno che non sa bene più cosa deve accettare e cosa no di quello che lo circonda.
Ma no. Non è che penso che gli altri 80 che erano con me si ingannino. Provano a giocarsela, come ci ho provato – male – io. Ma meritano di più, meritano di più come me, e le cazzate costano care perché corrodono la considerazione che si ha di se stessi, anche perché poi non comprano neanche quella truffa di lavoro spacciato per volontariato e pagato 3 euro e 50 l’ora. Il servizio civile. Vabbé dovevo provarla questa del servizio civile.
M’incammino verso casa per compilare qualche altro curriculum.
§§§
Al colloquio del servizio civile per il progetto ‘Un patrimonio botanico da scoprire, promuovere e valorizzare’ eravamo 64 per 7 posti disponibili. La faccia di quei ragazzi probabilmente era uguale alla mia. La faccia di chi spera di essere preso. Non per spirito di prestare un servizio di volontariato per quanto ti possano interessare le piante e la natura, ma per quei 400€! Perché 400€ sono meglio di niente anche se lavori 6 ore al giorno per 5 giorni. Ormai funziona così, ragionando sul “meglio di niente”. Nell’attesa di essere chiamati chiacchieravo con alcuni di loro. Vengo a sapere che quasi tutti sono laureati, lauree “attinenti” alla domanda: quindi scienze agrarie, scienza ambientali, scienze erboristiche, scienze forestali.
Mi fermo a parlare con una ragazza. 26 anni laureata in scienze erboristiche alla triennale e scienze agrarie alla magistrale. È stata all’estero per “fare curriculum”. Viviamo per fare esperienze, per fare curriculum. Mi racconta che lei ora è un’agronoma, iscritta all’albo. Che prima di fare domanda per il servizio civile ha cercato lavoro presso aziende che potessero assumerla, mi dice che le aziende non assumono, che un agronomo ce l’hanno già e non hanno bisogno di altri dipendenti, nemmeno stagisti pagati a rimborso spese. Allora si è informata per aprire uno studio suo, uno studio agronomico di consulenza. Mi racconta di tutte le trafile burocratiche che ci vorrebbero, il male minore mi dice, perché per lavorare in proprio devi aprire una partita iva. Aprire una partita iva significa solo una cosa in Italia se non hai le spalle coperte: tasse. Tasse spropositate rispetto a quello che guadagneresti mi dice, e quindi abbandona l’idea. Ogni tanto offre consulenze appoggiandosi ad altri studi, ma questo non le permette di mantenersi da sola: “c’ho da pagare l’affitto e di tornare a casa dei miei non mi va, ho 26 anni e cerco l’indipendenza economica oltre che “di vita” diciamo. Ho fatto domanda per il servizio civile perché 400€ per 8 mesi mi farebbero tirare avanti un po’”.
Non rimango scioccata dal suo racconto, conosco tanti ragazzi così. Mia sorella ad esempio. Laureata in tre anni con un bel voto. Le carte in regola insomma, quello che ti dicono dovresti fare per meritarti una vita dignitosa. E invece no. Non trovando lavoro è partita in Inghilterra a fare l’aupair per imparare l’inglese. Che è un po’ quello che ti dicono tutti quelli che partono a fare i lavapiatti o gli aupair a Londra. Parto per un po’, lavoro e nel mentre imparo la lingua che comunque fa curriculum. Poi torno. Molti non tornano. Rientrata da Manchester si rimette a cercare lavoro ma niente. Aiuta i miei con la piccola attività che hanno, aiuta in casa con le pulizie e il fine settimana lavora in un ristorante per 50€, il tanto che le permette di bersi una birra con le amiche o di comprarsi un jeans senza sentirsi in colpa nei confronti di mamma e babbo. Mia sorella ha 27 anni. Alla stessa età mia madre aveva un lavoro e si stava per sposare. “Ai tempi il lavoro non mancava”, mi dice sempre mia mamma. “Ero indipendente. Non pesavo sulle spalle dei miei genitori da un po’. Ho iniziato a lavorare a 16 anni.”
Noi nati negli anni 90 la avremmo mai?
Abbiamo la colpa di essere nati nell’epoca sbagliata e nel posto sbagliato? Le paghiamo noi le scelte di altri, di quelli che decidono, e le paghiamo care e sulla nostra pelle. Come Michele, quel ragazzo che si è suicidato, o meglio che è stato ammazzato da una società che lo ha accantonato. E io mi incazzo. Mi incazzo quando leggo di ragazzi più o meno della mia età che si ammazzano perché non ce la fanno più. Mi incazzo quando vedo mia sorella depressa perché con mamma e babbo non ci vuole più vivere ma che non sa dove andare né come, mi incazzo quando vedo mia mamma che se la prende a male quando va a rateizzare tutto ciò che è possibile rateizzare, mi incazzo quando vedo mio babbo che si alza ogni mattina alle 5 per fare lavori di merda e guadagnarci il nulla, mi incazzo quando vedo i miei amici che partono a fare i lavapiatti a Londra, si arruolano nell’esercito perché almeno uno stipendio ce l’hai, mi incazzo perché ci hanno ridotti ad accontentarci del “meglio di niente”: un cazzo di servizio civile per 400€. Poco male, c’è di peggio mi potrebbe venir detto.
Servizio civile che nasce come volontariato e che è diventata quella cosa a cui aspirano tutti i neolaureati che ti permette di tirare avanti altri 8 mesi! Quella cosa per cui la commissione, alla domanda: perché hai scelto di fare domanda per il servizio civile? Vorrebbe che tu rispondessi (e rispondi poi realmente sparando una cazzata che ti sprofonda nell’imbarazzo da quanto credi assordi tutti) che lo fai perché ti interessa il progetto, per esperienze personali, che non te ne frega nulla dei soldi e che lo faresti anche da volontario. Ma la verità è che il servizio civile è diventato un ripiego. E poi diciamola tutta: ma davvero per togliere erbacce serve la laurea magistrale in scienze agrarie? Dopo che ti sei fatto tutto quel culo a studiare. Allora perché fare l’universtà? Per bagaglio culturale?! Beato chi può permettersi di pensarla così. Perché i soldi spesi in affitto, tasse universitarie e libri non mi fanno da bagaglio culturale. Unipi prima responsabile che incentiva il lavoro sottopagato dei suoi studenti e neolaureati. Un modo come un altro per sfruttare i giovani, che sono più propensi a farsi sfruttare.
Le frasi ricorrenti di solito, che ci vengono propinate per farci credere che il mondo va così e basta e non ci puoi fare nulla e che la responsabilità non è di nessuno, penso siano due: La prima è “La vita è dura e ingiusta. Occorre farsene una ragione.” E la seconda è “Devi impegnarti di più, vedrai che un giorno tutti i tuoi sforzi saranno ricompensati.” Finisco il colloquio. Non ho più voglia di parlare con nessuno. Mi ronzano nelle orecchie queste due frasi. Mi sento una volta di più presa per il culo…